Attacco al verde; considerazioni e riflessioni di Ezio Boero
E poi c’è chi declama bene ma ràzzola male.
Occupazione con funzioni sportive-agonistiche di parte del Parco del Meisino e abbattimento di tutti i 280 alberi di corso Belgio e di decine di piante in corso Umbria sono alcuni (ma non gli unici) progetti, molto impattanti del verde pubblico, decisi dall’amministrazione comunale torinese.
Comitati di cittadini sono attivi con varie iniziative per contrastare questi attacchi al verde pubblico, o, a seconda delle opinioni, per ridimensionarli fortemente.
Non è scopo di questo scritto di entrare nel merito dei contenuti dei confronti (in cui sto dalla parte della difesa dei necessari grandi alberi dei corsi e della naturalità del Meisino) ma di cercare di evidenziare il contesto in cui questi fatti avvengono.
Nel passato, dibattiti di questo tipo erano assai più semplici: chi difendeva gli alberi era avversato da chi li sacrificava al “progresso” (così lo definiva).
Oggi la discussione è avviluppata in un nebbione, sparso da Comune e organi di stampa “fedeli alla linea”, in cui chi sostiene progetti avversati da molti cittadini attivi sul territorio spesso usa le loro stesse parole, i loro stessi riferimenti culturali; deve avere letto i medesimi documenti ecologisti.
C’è qualcosa che non quadra: si può sostenere, ad esempio, l’abbattimento di 280 alberi di corso Belgio e la loro sostituzione con piante di assai minore dimensione e capacità di salvaguardia della salute anche con le stesse motivazioni di chi magari si legherà a quegli alberi per difenderli?
Mi avventuro nel tentativo improbo di cercare di ricostruire l’arcano, costruendo la scena di un’immaginaria assemblea pubblica (una situazione-tipo, summa di quelle viste negli ultimi anni) alla presenza di vari rappresentanti istituzionali, tecnici, operatori privati pronti ad entrare in campo … Ah! e anche di cittadini.
Ciac ! La presidenza del consesso inizia col ringraziare distrattamente gli astanti (“donne e uomini”, ça va sans dire) ma soprattutto le personalità a vario titolo intervenute al dibattito (che sembrano far parte di un’élite di savii che sovrasta la platea, anche per la loro collocazione, al tavolo della, o accanto alla, presidenza oppure seduti in prima fila). Dopo lo scambio di convenevoli tra loro e brevi esternazioni di rappresentanti delle circoscrizioni (tanto per far conoscere che esse esistono ancora), segue la discesa in campo nelle periferie del prestigioso rappresentante comunale. Il suo intervento assume le dimensioni e la lunghezza di un’ininterrotta cascata di affermazioni standard già sentite pronunciare in occasioni similari. Le sue parole per elogiare il progetto finiscono progressivamente per non avere più alcun collegamento col senso comune. Portano alla mente l’uso del termine “riforma”: per anni patrimonio di chi voleva migliorare la società, oggi diventato bandiera di chi vuol ridimensionare democrazia e conquiste sociali.
L’intervento assessorile stigmatizza il cambiamento climatico che mette in discussione la stessa vita futura del pianeta. Affermazione indubbiamente vera, che non sembra però avere responsabili, né in quella sala né nel mondo.
Alcuni tra i presenti perdono il filo del discorso nel chiedersi tra sé e sé di chi siano le responsabilità della catastrofe ecologica incombente: degli “Stati canaglia” avversati dalla nostra civile comunità europea? di imprenditori retrogradi che non hanno ancora imparato a maneggiare attività green con ritorni interessanti per loro? O, forse, di un’economia basata sul profitto individuale? Troppo tardi per cercare risposte. Il relatore, denotando ammirevole memoria, è già precipitato nella citazione di tutta una serie di frasi estratte da normative (nazionali comunitarie mondiali) che, da come sono abbozzate, sembrerebbero in grado di dare speranza di sopravvivenza del pianeta (pur mantenendone le disuguaglianze sociali).
Qualcuno del pubblico, trascinato dalla lezione cattedratica, si permette di integrare il relatore citando un’ulteriore recente legge di tutela ambientale e riceve un plauso pubblico da lui. S’affacciano nel forbito eloquio gli onnipresenti termini “resilienza” (che pare suonare come accettare e convivere ma non contestare; la resistenza pare esser lasciata alle cerimonie per la vittoria del 1945 sul nazifascismo), “rigenerazione”, “riqualificazione”. Parole condite qua e là di indispensabili termini inglesi à la mode. Che dovrebbero evocare, a chi ne capisce il significato, movimento, miglioramento, ottimismo debordante.
Si sottolinea anche la necessità di coinvolgere risorse private (con un timido accenno al bilancio cittadino, senza ricordarne ovviamente le origini olimpiche) oppure, a seconda dei casi, di sfruttare l’occasione irripetibile di fondi europei.
Aleggia l’immagine di una città con abitanti anziani che cercano solo ombra e alberi vecchi e malandati, addirittura pericolosi (tanto che si può pensare che gli attuali abbattimenti siano l’esperimento per una ecatombe futura di alberi urbani).
Intanto, migliaia di euro, da utilizzare senza perder tempo in inutili discussioni, svolazzano ormai per la sala, encomiabili investitori vengono elogiati, tecnici specializzati in riconversioni naturalistiche sono innalzati a nuovi eroi urbani, tempi di realizzazione stringenti incalzano.
Chi si sentirebbe di ostacolare un tale oliato processo virtuoso?
Il nuovo look di Corso Belgio
Entrano in campo “le competenze”. Dei progettisti, dei tecnici, di chi ha studiato per anni per raggiungere cattedre prestigiose, di appartenenti a società di consulenza amiche dell’amministrazione che, senza avere mai incontrato un cittadino di zona, hanno elaborato un progetto perfetto che assume in toto le normative ambientali e i bisogni della gente.
A questo punto accade talvolta che le luci si spengano per proiettare immagini, troppo lontane dalla maggioranza dei presenti per carpirne il significato, che producono lo stesso effetto delle diapositive di viaggi appioppate agli amici a fine serata.
Per fortuna un cittadino non s’assopisce. Cerca d’intervenire.
La “nuova” formula assembleare è quella di cercare di imporre solo domande e non considerazioni ma lui pone addirittura un’alternativa al progetto.
E’ il momento giusto per inserire il valore magico della “co-progettazione”. Lo fa in genere l’istituzionale che si dice più di sinistra, a cui si affida il rapporto con cittadini delusi e amareggiati e l’incerta tenuta dei voti.
Un tempo i “comitati di cantiere”, che le istituzioni istituivano in occasione di opere calate nei quartieri e avversate dalla gente perché inutili o dannose, includevano cittadini volonterosi, di cui si perdevano le tracce dopo essere andati a prendere il caffè con amministratori e tecnici, senza che il progetto stesso avesse poi alcun mutamento. Oggi, uno o più acculturati tecnici di parte, disponibili a farsi coinvolgere, sono arruolati seduta stante per poter spendere in seguito alcune marginali modifiche che non scalfiscono l’intoccabile direzione dell’opera.
Resta il problema dei pochi irriducibili che non pensano di modificare il progetto ma lo vogliono cassare. Loro citano addirittura il termine “opzione zero” che produce un brivido che percorre la compagine istituzionale. In epoca di political correct, questi eroici cittadini, non possono alzare la voce, né “fare politica” (cioè criticare l’amministrazione con argomentazioni complessive che non possano apparire solo slogan, termine oggi vituperato). Tentano la “missione impossibile” di ribaltare, nei pochi minuti di interventi loro concessi, la frittata confezionata dai precedenti giorni e giorni di riunioni, attività, accordi, avvenuti nel “palazzo”.
Alcuni di questi cittadini non hanno studiato all’università, non possono vantare frequentazioni con le élite cittadine, non fanno parte di associazioni ambientaliste legalmente riconosciute, non conoscono a memoria frasi delle normative europee, addirittura (!) non conoscono l’inglese. Perdono magari il filo.
Sono considerati residui di un passato contestativo ad oltranza, a cui chiedere interventi brevi e farglieli finire in fretta.
Perché “non c’è più tempo”.
L’assemblea termina. La partecipazione c’è stata: chi voleva educatamente dare un piccolo contributo per smussare alcuni angoli lo ha potuto dare.
Gli amministratori stringono mani di “lealisti” e sfuggono alle ultime “domande fuori luogo” di pasdaran dell’opzione zero dell’opera.
L’indomani iniziano i lavori di abbattimento di decine di alberi, che “hanno finito il loro ciclo di vita”, “intralciano i fili del tram”, “impediscono i parcheggi”, “sono invasivi e presenti nella lista nera degli alberi stranieri”, “ostacolano la realizzazione di una pista ciclabile che favorisce una mobilità rispettosa dell’ambiente”. Al loro posto, saranno piantati quasi lo stesso numero di alberi, di specie diversa, lunghi e dritti come grissini. Alcuni moriranno presto ma gli altri, se sopravviveranno almeno una quindicina d’anni, impettiti soldatini con meno foglie attaccate ai rami dei loro predecessori uccisi, saranno il triste ricordo del precedente viale alberato, della sua ombra e frescura, del canto degli uccellini che esso ospitava.
EZIO BOERO: Nato a Torino nel 1954. Laureato in Scienze politiche con una tesi su “Politica dei trasporti e sviluppo urbano: il caso torinese”, ha fatto attività politica, sindacale e ambientalista.
ha pubblicato: