Archivio per mese: Ottobre, 2023
Violenze di polizia a Torino: una tradizione sabauda, di Claudio Novaro
Manganellate e violente cariche della Polizia contro un corteo di studenti che protesta per l’arrivo di Giorgia Meloni in città. Succede ancora una volta a Torino, replicando disinvoltamente e con costanza (quasi una tradizione sabauda, attecchita però anche altrove nella penisola) quanto avvenuto in molte manifestazioni cittadine: basta citare quelle studentesche del gennaio 2022 o i tanti cortei del primo maggio degli ultimi anni. Né si può dimenticare che, prima ancora del G8 di Genova del 2001, Torino ha visto, nel marzo del 1998 e nel maggio 1999, l’assalto di decine di operatori delle forze dell’ordine a due centri sociali, l’Asilo occupato e l’Askatasuna: un assalto senza la violenza indiscriminata vista a Genova, ma con il suo corredo di botte, distruzione delle suppellettili e della strumentazione musicale, scritte offensive sui muri.
La differenza questa volta, forse grazie ai numerosi video che sono immediatamente girati sui social, è che anche una parte dei giornali e del mondo politico, tradizionalmente schierata in una difesa a oltranza dell’operato della Polizia, ha espresso qualche dubbio e qualche critica. Su La Stampa, ad esempio, accanto a un articolo come di norma antipatizzante rispetto alle ragioni della protesta, è comparso un commento di Elena Loewenthal, direttrice del Circolo dei lettori, che ha stigmatizzato l’accaduto, sostenendo che «scene come quelle passate attraverso le videocamere dei telefonini ieri sono davvero difficili da digerire e ancor meno da comprendere. Non è giusto, non è logico, non è guardabile quell’accerchiamento di un ragazzino, con i manganelli che si muovono, i caschi schermati che nascondono i volti dei poliziotti». L’articolo, peraltro, inizia con una indimostrata petizione di principio, secondo cui «a Torino c’erano sicuramente anche infiltrati, agitatori di professione, gente pronta a fomentare una violenza che poco o niente ha a che vedere con la legittima protesta entro i confini di una libera democrazia che tale è se fa vivere anche il dissenso». Insomma, la censura alla condotta in piazza della Polizia viene ancora una volta edulcorata attraverso il riferimento ai barbari antagonisti.
Ora, non so che informazioni e che conoscenze abbia la dottoressa Loewenthal del conflitto sociale cittadino e delle proteste studentesche. Immagino quelle derivanti dagli articoli comparsi sul giornale in cui scrive, spesso nient’altro che il frutto delle veline della questura. Se con la presenza di agitatori di professione ci si riferisce ai giovani dei centri sociali o dei collettivi studenteschi medi e universitari o, ancora, delle organizzazioni giovanili (come ad esempio “Cambiare rotta”, pluricitata, al pari del movimento No Tav, nei resoconti sulla vicenda), si tratta della parte spesso più consapevole e militante della comunità studentesca. E non si comprende per quale ragione tali soggetti sociali non possano scendere in piazza senza vedersi etichettati con improbabili definizioni e classificazioni, tutte interne a una narrazione che cerca il complotto, la regia esterna a tutti i costi, come se non ci fossero ottime ragioni per essere giovani e arrabbiati e per protestare in questo paese.
L’articolo però giustamente si interroga sulle modalità del controllo dell’ordine pubblico e individua una delle criticità più appariscenti della vicenda: «La disparità che ha segnato alcuni momenti delle manifestazioni di ieri è tanto lampante quanto problematica e lascia aperta una domanda ineludibile: non si poteva fare ed essere altrimenti? Non esiste una via diversa per controllare le proteste ed evitare che a segnare giornate critiche come quella appena trascorsa a Torino restino immagini del genere?».
Come sa chiunque si sia occupato di tali questioni, il cosiddetto protest polìcing, cioè il controllo della protesta da parte forze dell’ordine, costituisce uno dei momenti più delicati nella gestione dell’ordine pubblico, a fronte della innegabile tensione che esiste tra il potere della Polizia di tutelare l’ordre dans les rues con rapidità e senza interferenze e la necessità di rispettare la libertà personale dei cittadini e il loro diritto di partecipazione politica. La storia muscolare delle risposte al conflitto nel corso di questi anni costituisce un segnale allarmante, la concreta dimostrazione di come le strategie di repressione violenta abbiano largamente prevalso su quelle legate a dinamiche di controllo negoziato (https://volerelaluna.it/societa/2019/07/02/repressione-giudiziaria-e-movimenti-il-caso-torino/). Si tratta di strategie che si inscrivono a pieno titolo in quelle pratiche di costante alterizzazione, cioè di identificazione come avversari, e come persone in ogni caso pericolose, dei soggetti che la Polizia incontra nell’ambito della propria attività di accertamento sul territorio, di cui ha ragionato recentemente il sociologo Vincenzo Scalia.
Ciò che stupisce – e che invece, se attuato, potrebbe forse costituire un almeno parziale antidoto alle violenze – è la quasi totale assenza di un controllo di legalità della magistratura, specie di quella inquirente, sull’operato delle forze dell’ordine. In tutti questi anni, eccezion fatta per le note vicende genovesi del 2001, non ho mai visto mandare a giudizio un operatore delle forze dell’ordine per abusi commessi nel corso del suo lavoro in piazza durante le manifestazioni. Come ho avuto modo di segnalare in più occasioni, la Polizia, nell’ambito del conflitto sociale, non solo detiene una sorta di monopolio nella definizione dei comportamenti di rilevanza penale, nella perimetrazione tra quanto è consentito e quanto non lo è e nella selezione dei futuri imputati dei processi a carico dei manifestanti (https://volerelaluna.it/territori/2020/10/23/giustizia-a-torino-scene-di-ordinaria-repressione/), ma si muove con la sicurezza della propria assoluta impunità per tutte le condotte tenute o gli ordini impartiti (che si tratti di cariche, di lancio di lacrimogeni e finanche – le storie valsusine insegnano – di pestaggi attuati collettivamente), un’impunità che si estende poi sino alle fantasiose ricostruzioni dei fatti proposte in giudizio (anche nei casi non frequenti di totale assoluzione degli imputati).
Ancora poche settimane fa, in un processo per fatti avvenuti nel gennaio 2022 a seguito delle proteste contro l’alternanza scuola-lavoro dopo la morte di un giovane vicino a Udine (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2022/07/27/antagonisti-a-torino-incarcerarne-uno-per-educarne-cento/), le manganellate degli operatori di Polizia contro studenti e studentesse (che hanno riportato ferite anche gravi, talora con ricoveri ospedalieri e prognosi superiori ai 30 giorni), riprese e documentate in plurimi video, non solo non hanno condotto a nessuna iscrizione nel registro delle notizie di reato, ma sono state apertamente giustificate dal pubblico ministero di udienza con la scelta incosciente degli studenti di voler scendere in piazza e svolgere un corteo nonostante i divieti connessi alla pandemia. Alla faccia del principio di proporzionalità nell’uso della forza e della tutela dei diritti costituzionalmente garantiti dei manifestanti.
Tra pochi giorni inizierà a Torino u
n processo che vede 38 persone imputate per i fatti accaduti nel corso dei cortei del 1 maggio del 2017 e del 2019. Da oltre una decina di anni al cosiddetto spezzone sociale, vale a dire alla parte più effervescente, rumorosa e partecipata del corteo, viene impedito, a suon di manganellate e cariche, di accedere alla piazza dove si sta svolgendo il comizio sindacale (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/04/27/un-25-aprile-a-torino-aspettando-il-1-maggio/), per scelta incontestabile (sembra ahimè, secondo quanto rivelano le annotazioni di polizia giudiziaria depositate negli atti del procedimento, voluta e concordata con le stesse organizzazioni sindacali) dei responsabili di piazza della Polizia, che non ritengono opportuno che qualcuno decida di contestare il comizio in corso. Così le violente cariche che tutti gli anni rendono impossibile al corteo di proseguire e raggiungere piazza San Carlo, vedono poi solo l’apertura di procedimenti contro i manifestanti per le resistenze realizzate nel tentativo di avanzare.
Ma una carica violenta che impedisce a molte centinaia di persone di proseguire in corteo non costituisce un’offesa al diritto di manifestare collettivamente e, al tempo stesso, una costrizione ad «altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa», secondo la dizione che il codice penale sostanziale dà della fattispecie astratta di violenza privata? E, per tornare ai fatti di pochi giorni fa, i poliziotti che compaiono in molti filmati, che prima sventolano e poi usano il manganello, in una situazione di apparente calma, contro studenti e studentesse, non stanno a loro volta commettendo un abuso di rilievo penale? Domande ingenue che, purtroppo, non troveranno alcuna risposta giudiziaria.
Manifestare è la regola, reprimere l’eccezione di Francesco Pallante e Matteo Losana
Nel commentare quanto accaduto durante le manifestazioni studentesche che hanno accompagnato la visita della Presidente del Consiglio a Torino dello scorso 3 ottobre, il Prefetto di Torino ha utilizzato espressioni che mal si conciliano con la disciplina costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero. Secondo il Prefetto: caricare gli studenti sarebbe stato «un atto dovuto»; «il diritto di manifestare deve rispondere a delle regole, martedì non c’è stata nessuna richiesta di autorizzazione da parte dei manifestanti»; «c’è stata la necessità di garantire che un evento di portata nazionale si svolgesse in un clima civile e sereno» (https://torino.repubblica.it/cronaca/2023/10/04/news/scontri_a_torino_prefetto_cafagna_intervento_dovuto-416825028/).
È indubbio che il diritto di manifestare, come tutti i diritti costituzionali, deve svolgersi nel rispetto delle regole; ma è altrettanto indubbio che la disciplina costituzionale della libertà in questione è ben diversa. La norma di riferimento è l’articolo 17 che, disciplinando la libertà di riunione, tutela anche la libertà di manifestazione (pacificamente intesa come “riunione in movimento”). Trattandosi di una libertà, l’esercizio della medesima non deve essere rimesso all’autorizzazione di nessuno, tantomeno dell’autorità di governo. Dice infatti la Costituzione: «delle riunioni in luogo pubblico [come le piazze, ndr] deve essere dato preavviso alle autorità». Qui le parole sono importanti: il preavviso non è una richiesta di autorizzazione. Dare il preavviso a qualcuno significa metterlo a conoscenza delle proprie intenzioni. Punto. Il preavviso non necessita di risposta, è un atto unilaterale. A che cosa serve allora? Serve a consentire all’autorità di valutare la situazione, verificando se dalla manifestazione deriveranno «comprovati» pericoli alla sicurezza o all’incolumità pubblica. E solamente in questi casi – ben più circoscritti rispetto al più ampio concetto di ordine pubblico – l’autorità può vietare la manifestazione, che dunque non potrà legalmente svolgersi. Insomma, il divieto di manifestare è il caso eccezionale (non certo la regola), adottabile solamente quando ricorrano quei comprovati motivi di cui abbiamo detto. E tra questi motivi non figura certamente il concomitante svolgimento di un «evento di portata nazionale» (sono ancora le parole del Prefetto).
Anzi, proprio perché era in corso un evento di portata nazionale, con le più alte cariche istituzionali riunite, massima era l’esigenza di garantire la libertà di manifestazione. Mentre il potere autoritario è terrorizzato dalle critiche, il potere democratico dovrebbe sempre affrontarle apertamente, perché è un potere che è sempre in gioco. Un potere sempre (democraticamente) contendibile. Se martedì scorso c’era, dunque, un atto dovuto (vale a dire, un dovere che gravava sulle forze dell’ordine), questo era di tutelare la libertà dei manifestanti, non certo di caricarli.
E se il preavviso non viene dato? Nemmeno in questo caso l’autorità è legittimata a ricorrere alla violenza per sciogliere la manifestazione. La mancata comunicazione del preavviso fa sorgere la responsabilità degli organizzatori, ma la manifestazione rimane pienamente legittima. Il solo caso in cui le forze dell’ordine sono autorizzate a intervenire utilizzando la forza ricorre quando la manifestazione viola il precetto costituzionale che impone di riunirsi «pacificamente e senz’armi». In questo caso, lo scioglimento può dirsi un atto dovuto. Sul presupposto che il primo atto di violenza deve venire dai manifestanti, non certo dalla polizia. In un contesto sociale sempre più difficile, nel quale le ragioni di malcontento e di dissenso sono sempre più numerose, sulle istituzioni e sulle forze dell’ordine grava un compito, senza dubbio difficile, ma importantissimo: garantire che lo scontento, anche se fastidioso, possa sempre e liberamente esprimersi nelle forme previste dalla Costituzione.
L’articolo riprende quello, più ampio, pubblicato su la Repubblica, Cronaca di Torino, del 6 ottobre
“DALLA 39ma A VOLERELALUNA”
Nell’ambito della rassegna “CIRCOSCRIZIONI IN MOSTRA – Un viaggio tra i quartieri di Torino” sabato 21 ottobre 2023 nella casa del quartiere San Donato “Più SpazioQuattro” in via Saccarelli 18 Valeria Cottino e Marco Revelli hanno presentato l’associazione Volere la luna e le attività che si svolgono nella sede in via Trivero 16; ha coordinato l’incontro Monica Quirico
Nel corso della presentazione è stato proiettato questo video
Gennaio 2024 una nuova risorsa per il quartiere Parella
Nel 2018 Volerelaluna ha riaperto al quartiere la palazzina e la sala polivalente di via Trivero 16 per un’affascinante avventura di convivialità, crescita culturale, solidarietà e sostegno a chi non ce la fa.
Così sono nati sportelli di consulenza gratuita su salute, problemi legali e casa, interventi di sostegno alimentare a famiglie in difficoltà, seminar i di studio, conferenze e presentazione di libri, mostre d’arte e fotografia, proiezione di film, eventi musicali, culturali e teatrali e tanto altro.
Presto ci siamo accorti che i vecchi locali erano insufficienti.
Allora, avvalendoci dei contributi statali, abbiamo avviato insieme a Architetture Senza Frontiere Piemonte un progetto per una completa ristrutturazione e riqualificazione energetica con materiali naturali che si concluderà a gennaio 2024.
Questo risultato è reso possibile anche grazie al contributo della Fondazione Compagnia di San Paolo nell’ambito dell’iniziativa “benEfficientiamo – Riqualificazione energetica per il sociale”, in collaborazione con Fratello Sole Energie Solidali.
Il progetto è ambizioso: un ristorante sociale, un’aula studio, sportelli di consulenza potenziati, una biblioteca tematica, degli orti urbani, una sala in grado di ospitare 80 persone e via seguitando.
Il tutto con materiali naturali e rispettosi dell’ambiente. Per fare di via Trivero 16 un luogo di riferimento e una casa per donne e uomini, associazioni e movimenti.
Torino. Per l’assessora al bilancio le banche hanno sempre ragione…di Ettore Choc
Almeno un risultato è stato raggiunto dalla presentazione dell’interpellanza del cittadino riferita alla clausola capestro contenuta nei mutui stipulati negli ultimi 20 anni dal Comune di Torino con le principali banche (San Paolo, Unicredi, Ccddpp, Deutsche Bank, Dezia). Interpellanza discussa nella seduta del Consiglio Comunale dell’11 settembre scorso. L’assessora al Bilancio Nardelli, in sede di replica, ha espresso con chiarezza il punto di vista dell’attuale Amministrazione. Ma andiamo con ordine.
La clausola capestro. I mutui a tasso fisso stipulati dalla Città contengono una clausola in base alla quale, in caso di estinzione anticipata degli stessi, l’ente pubblico deve comunque pagare l’intero ammontare degli interessi dovuti fino alla scadenza precedentemente fissata del mutuo. Una clausola che pesa per il 15-20% del capitale residuo, che rende impossibile e non conveniente estinguere anticipatamente il mutuo. Si dà il caso che la maggior parte dei mutui comunali, stipulati nei primi anni duemila e fino al 2010, pagano un tasso medio del 4,5% di interesse. Il tasso interbancario Euribor dal 2013 non ha superato lo 0,3% e dal secondo semestre 2015 è diventato stabilmente negativo fino al primo semestre 2022. I tassi di interesse di mercato nel periodo considerato per i nuovi mutui non hanno mai superato il 2-2,5%, la metà dei tassi comunali. E si dà il caso che dall’inizio 2007 il decreto Bersani, convertito nella legge n. 40 del 2 aprile 2007, consente ai privati titolari di un mutuo per l’acquisto o la ristrutturazione di un’abitazione di chiudere il mutuo a tassi elevati e di aprirne uno nuovo con altra banca senza pagare alcuna penale per i mutui stipulati dopo l’entrata in vigore della legge (mentre per quelli precedenti la penale varia dall’1,5 all’1,9%, e proprio nel periodo 2006-2009 il tasso interbancario è stato stabilmente sopra il 2% con un massimo del 5% a inizio 2009).
Il Comune di Torino (e non lui soltanto) invece, stretto nella tagliola dei contratti stipulati con clausola capestro, incapace di denunciare la situazione di strapotere delle banche e di opporsi ad essa, ha continuato a pagare per una decina di anni tassi di interesse mediamente doppi rispetto a quelli di mercato. Vien da chiedersi perché le quattro amministrazioni interessate dal problema (Chiamparino, Fassino, Appendino e, da ultimo, Lo Russo) non abbiano preso alcuna iniziativa politica di denuncia dello strapotere bancario, della complicità di Cassa Depositi e Prestiti con le banche private, della discriminazione dell’ente pubblico trattato peggio di un privato cittadino, né abbiano richiesto, dal 2007 in poi, di essere equiparate legislativamente ai privati eliminando o riducendo drasticamente le penali da pagare. E abbiano lasciato ad alcune delle banche citate (San Paolo e Unicredit) di imporre, da un lato, tassi molto elevati all’Ente comunale e di presentarsi, dall’altro, come enti benefattori della cittadinanza e del Comune attraverso le loro Fondazioni.
Un danno di almeno 150 milioni di euro. L’esatta quantificazione del danno per la Città non è possibile in base alle insufficienti informazioni di cui disponiamo, ma il mancato risparmio si aggira almeno sui 15 milioni all’anno, che, moltiplicati per dieci anni (2013-2022), fanno 150 milioni di euro. Insieme alla sciagurata stipulazione dei derivati, che a fine 2022 hanno già causato una perdita di 165 milioni, e alla cronica incapacità di riscossione coattiva di multe e tributi (1.572 milioni di crediti cancellati ma spesi), la clausola capestro è responsabile del pericolo di dissesto, sempre incombente nonostante la robusta iniezione di aiuti statali. Da notare che anche i pochi nuovi mutui stipulati conservano la famigerata clausola.
Le rinegoziazioni comunali con le banche sono prigioniere di uno schema fisso che si ripete immutabile sotto le diverse amministrazioni succedutesi: si allunga la durata del mutuo, il tasso di interesse viene ridotto di pochi decimali (restando molto più alto del tasso di mercato), si sposta la restituzione delle quote capitale più avanti di qualche anno. In questo modo il Comune ottiene un po’ di ossigeno per coprire la spesa corrente ma perpetua il debito, lo trasferisce alle nuove generazioni e paga molti più interessi (https://volerelaluna.it/territori/2020/07/06/torino-rinegozia-i-mutui-le-banche-ringraziano/). Facendo un esempio concreto: nel mutuo San Paolo 1585 la rinegoziazione nel novembre 2018 ha allungato il mutuo da 7 a 17 anni: nei primi sette anni la quota capitale si è ridotta da 68,5 a circa 22 milioni ma alla fine del periodo, poiché il tasso si è ridotto solo dello 0,33%, invece di pagare 13,5 milioni di interessi il comune paga 30 milioni. Con scadenza immutata e nuovo mutuo a tasso di mercato il Comune avrebbe pagato 8 milioni di interessi, risparmiando quasi 6 milioni su un solo mutuo!
A fronte di questa situazione ecco la spiegazione dell’assessora al Bilancio (sito telematico della Città, registrazione dell’11 settembre 2023): «In gran parte dei contratti di mutuo viene prevista, nel caso di estinzione anticipata del finanziamento, un indennizzo che comunemente e impropriamente viene definito penale, si tratta di un importo che la banca richiede in occasione dell’estinzione anticipata del finanziamento, finalizzato ad assicurare la copertura del rischio che la banca assume nel momento del prestito. Le modalità di quantificazione di tale indennizzo sono analiticamente descritte nel contratto in cui si concede il mutuo sia con le banche private sia con Cassa Depositi e Prestiti. Nel caso di mutui a tasso fisso la banca assume un rischio di tasso d’interesse, considerato che il finanziamento concesso non è indicizzato per definizione in quanto fisso, mentre la propria raccolta ordinaria di liquidità è prevalentemente parametrata agli indici di mercato monetario a breve termine. In caso di aumento dei tassi di interesse la banca subirebbe pertanto una perdita. In sostanza quando un istituto di credito concede un finanziamento a tasso fisso, al fine di coprire il proprio rischio di crescita dei tassi di interesse, si fa un’operazione di copertura integrale del rischio prevedendo il pagamento di un indennizzo a carico del cliente che chiede l’estinzione anticipata. Non è corretto definire penale l’indennizzo previsto per l’estinzione anticipata. Al momento non esiste nessuna specifica disposizione normativa che consenta all’istituto di credito di non applicarlo o all’ente di pretenderne la disapplicazione». In una Commissione Bilancio della circoscrizione 3 del 29 marzo scorso, a proposito delle continue rinegoziazioni dei mutui comunali, l’assessora aveva, inoltre, affermato: «Le contrattazioni con le banche, la stessa Cassa depositi e prestiti lavora sempre sull’equivalenza economica, le altre banche sono enti che devono gestire il risparmio di tutti i cittadini italiani, quindi non possono fare operazioni in perdita, si fa una rinegoziazione più respiro come pagamento delle rate ma nessuno rinegozia riduce un tasso che aveva quel valore. Ci deve essere sempre il discorso dell’equivalenza economica».
Cosa si deduce dalle spiegazioni dell’assessora al Bilancio? Che le banche hanno ragione, anzi non esiste alcuna clausola penale e tanto meno capestro: le banche devono tutelarsi dai rischi di mercato e lo fanno con la clausola che blinda i tassi stipulati fino al termine di durata dei mutui; che non vi è alcuna norma che consenta alla banca di non applicare l’indennizzo o agli enti locali di chiederne la disapplicazione (dimenticando che si tratta di un contratto, come tale modificabile tra le parti tramite nuova intesa o con ricorso all’autorità giudiziaria); che anche nelle rinegoziazioni è giusto che le banche non subiscano perdite (in verità ne hanno un bel guadagno perpetuando gli interessi fuori mercato) perché le banche non possono fare operazioni in perdita; che la clausola è motivata dalla necessità della banca di coprire il proprio rischio di perdite con l’aumento dei tassi di interesse (dimenticando che qui stiamo parlando di estinzione in caso di riduzione dei tassi di interesse di mercato e che la riduzione di tassi di interesse molto più alti del mercato avrebbe comportato per le banche non delle perdite ma solo una riduzione dei profitti!). Da notare che nel primo semestre 2023 le principali banche hanno dichiarato utili record (7 miliardi Intesa San Paolo, 4,4 Unicredit, 1,8 CDP) e che la distanza tra i tassi di interesse praticati sui prestiti e la remunerazione dei conti correnti è cresciuta del 25% negli ultimi sei mesi (4,3% contro 0,4%) a favore delle banche (la Repubblica, 17 settembre, p. 8).
Il presidente o l’amministratore delegato di Intesa San Paolo o di CDP non avrebbe potuto riassumere meglio dell’assessora il punto di vista degli istituti di credito. Ma quello dell’ente pubblico e, soprattutto, dei cittadini è lo stesso? La posizione dell’assessora è quella dell’intera maggioranza comunale? C’è qui la dimostrazione del fatto che quando parliamo di strapotere delle banche in città, di supina subordinazione degli amministratori, di incapacità di tutela degli interessi dei cittadini non si tratta di un discorso ideologico ma di una triste verità.
Il futuro. Superfluo aggiungere che la considerazione dell’assessora secondo cui con gli aumenti record del 2023 un’eventuale operazione di estinzione anticipata non è più conveniente non annulla gli errori del passato e del presente e non esime l’attuale Amministrazione dall’obbligo morale di tutelare meglio il denaro dei cittadini e di battersi per eliminare la clausola capestro dai nuovi contratti. Anche perché i tassi potrebbero nuovamente scendere e in quel caso, poiché, a oggi, il 63% dell’ammontare del debito comunale – secondo la Corte dei Conti Regionale – è composto da mutui a tasso fisso, si ricreerebbe in modo ancora più pesante la situazione penalizzante del decennio 2013-2022.