3 aprile: un pranzo sospeso. Articolo di Gabriella Domenino

Dai primi di marzo Volere la luna ha dato vita, per ora in modo sperimentale, a un’iniziativa di “pasti sospesi” (https://viatrivero.volerelaluna.it/pasti-sospesi/) come pratica di mutualità e solidarietà nei confronti delle tante persone in difficoltà che vivono nel nostro contesto urbano. In concreto, grazie all’accordo siglato con l’Associazione Sardi Antonio Gramsci di via Musinè (che provvede alla preparazione dei pasti), due nostri soci, Enzo e Gabriella, si recano settimanalmente presso le abitazioni di alcuni cittadini che vivono situazione di indigenza portando pranzi preconfezionati e amicizia. L’iniziativa – che vorremmo potenziare nel tempo – è resa possibile anche dalla collaborazione attiva con la Casa del Quartiere +SPAZIO 4 che fornisce l’elenco di cittadini segnalati dai servizi sociali.

Ad oggi è attiva la consegna settimanale di 10 pasti preparati dal Circolo dei Sardi che accompagna al confezionamento del pasto una sporta di verdura e frutta donata dagli ambulanti del mercato di corso Svizzera e da alcuni grossisti dei mercati generali. È una rete di relazioni che permette di rendere concreto un gesto che vuole essere qualcosa di più e di diverso da un intervento caritatevole di supporto: si incontrano persone, si vedono volti, si scambiano sguardi di solidarietà fra persone, che seppur in condizioni economiche difficili vorrebbero offrire un caffè, un bicchiere d’acqua come gesto di scambio riconoscente. Di seguito la cronaca di un incontro.

3 aprile 2021

È una giornata particolarmente calda, in questa primavera anomala: le cronache ci ricordano che è dal 1953 che non si registra un cielo così avaro di pioggia, in questa Regione densa di fiumi, montagne e colline che diventano pianura.

Con Enzo siamo in corso Toscana, lungo il tragitto della linea 3 del tram che dalle sponde del Po conduce al cuore delle Vallette; un quartiere storicamente teatro di rappresentazioni di malesseri, di fatiche personali che diventano collettive, fotografia di condizioni di vita condivise di chi lo abita. Viaggiamo sul lato destro del corso, dalla periferia verso il centro cittadino, nominando i numeri a ritroso nella ricerca dell’abitazione del signor S.

Come sempre Enzo, al termine della consegna precedente, ha chiamato telefonicamente il nominativo in elenco per accertarsi della presenza a casa dell’interessato.

“Si, ora sono a casa, ma tra poco devo uscire a fare delle commissioni”.

“Ma noi arriviamo subito. Ci aspetti. Dieci minuti e siamo da lei”.

A volte capita che nonostante Enzo si sia premurato di contattare la sera precedente le persone in elenco per concordare l’orario del nostro arrivo, poi non risponda alcuno al citofono. Allora le richiamiamo e sovente sono in casa. Chissà forse accolgono con leggerezza incredula la proposta di appuntamento per la consegna del pasto, o forse rispondere al suono del campanello di casa significa sottolineare a loro stessi e rendere visibile ad altri, a sconosciuti, la loro situazione di indigenza. Può subentrare la vergogna, l’imbarazzo, … chissà.

Arriviamo dunque al numero civico indicato: ad attenderci sul portone vi è un signore vestito con cura. Scendo dall’auto e domando se sia il signor S.: alla sua risposta affermativa aggiunge di aver portato con sé la documentazione che attesta la sua disabilità. Si avvicina.

“La ringrazio, ma non è necessario verificare i suoi documenti. Non abbiamo bisogno di riscontri”.

Il suo sguardo trasmette un misto di imbarazzo, disagio, timore e anche sorpresa: ricambio lo sguardo cercando di trasmettere un sorriso con gli occhi, per rassicurarlo.

Le mascherine ci obbligano ad affinare la comunicazione visiva, a prestare attenzione agli sguardi che riceviamo e a quelli che inviamo.

Il signor S. si dimostra curioso, interessato, vuole sapere chi siamo. Nel contempo si racconta, a volte ripetendosi. Gli sorrido e accolgo il suo racconto.

“Come posso fare per avere ancora qualche pasto. Io faccio dei lavoretti con il Comune, sono lento a comprendere, ma in questo momento è tutto fermo e così avrei bisogno di più pasti. È possibile? Come ti chiami?”

“Mi chiamo Gabriella”

“Io mi chiamo S. Puoi venire ancora a portarmi dei pasti?”

“Devo essere sincera, non lo so. Quello che posso fare è segnalare il tuo nominativo a chi predispone l’elenco.”

“Si, si. Ho capito. Però tu dillo il mio nome. Mi chiamo S. te lo ricorderai?”

Annuisco e lo saluto con la mano salendo sull’auto.

Con Enzo si rimane ancora un po’ di tempo fermi al medesimo numero civico: nel frattempo che  telefona a Cristina per organizzare la consegna successiva, comunico il nominativo del signor S. e guardo le persone che passano sul marciapiede.

È un quartiere rimasto difficile, sede negli anni di diversi insediamenti che non ne hanno facilitato il recupero urbano e sociale (dagli inizi degli anni ’80 prima il complesso carcerario, poi negli anni ’90 il nuovo stadio rifatto nel 2010-2011 ed infine nel 2012 la nuova centrale termoelettrica IREN)

Le persone, gli sguardi delle persone nelle periferie, il loro modo di muoversi, sembrano trasmettere fatica e disagio… o forse più semplicemente lo si nota perché ora siamo in questo quartiere e ci sembra più evidente che non altrove.