Diritto alla casa “Ce lo chiede l’Europa”, ma Draghi non risponde di Giustino Scotto d’Aniello
Mai più case senza famiglie e famiglie senza case.
Premessa
Il diritto all’abitare è affermato dalla stessa Corte Costituzionale in molteplici sentenze: il diritto all’abitazione viene enunciato tra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità, in cui si conferma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione.
La stessa Corte dei Conti, nella relazione accompagnatoria alla Deliberazione 3 agosto 2020, n. 9/2020/G, afferma che: “A livello nazionale i bisogni abitativi, oggetto delle politiche abitative, non risultano dotati di un’espressa tutela costituzionale al pari di altri diritti come quello alla salute (art. 32) o il diritto al lavoro (art.35), sebbene la giurisprudenza costituzionale ne abbia riconosciuto la valenza di diritto sociale attinente alla dignità e alla vita di ogni persona (cfr. ex plurimis sentenze n. 106/2018, n. 28/2003 e n. 520/2000).
Analogamente agli altri diritti sociali anche il diritto all’abitazione risulta, tuttavia, “condizionato” finanziariamente e non ha ottenuto, come accaduto invece per il diritto alla salute, una parametrazione in termini di livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale”.
“Ce lo chiede l’Europa”, ma l’Italia non risponde.
Siamo in una fase di grave emergenza abitativa derivante da un deficit strutturale dell’edilizia pubblica, in particolare, dell’edilizia popolare, che non garantisce il passaggio da “casa a casa”, cosi come prevedono tutte le direttive anche europee; in questa circostanza il ritornello “ce lo chiede l’Europa”, a tal riguardo si rimanda alla . risoluzione approvata il 21 gennaio 2021 dal Parlamento europeo (www.europarl.europa.eu) non viene recepito, paradossalmente, neanche dal cosiddetto PNRR di Draghi.
Nel Recovery Plan approvato dal Parlamento i fondi per l’edilizia pubblica sono stati ridotti rispetto a quanto previsto dalla bozza messa a punto dall’esecutivo di Conte, alla rigenerazione urbana e al potenziamento del cosiddetto “housing sociale” sono dedicati 7,3 miliardi sugli oltre 220 previsti in totale, di questi, quelli riservati all’aumento della disponibilità di alloggi sociali in senso stretto sono solo 0,5, pari a soli 500 milioni.
Tutto ciò a fronte di una domanda, secondo un’indagine pubblicata dal Forum Disuguaglianze e Diversità, di case popolari in attesa nelle liste comunali che ammonta a 650mila e 50.000 sentenze di sfratto all’anno (dati Ministero degli Interni), con un patrimonio abitativo pubblico sufficiente a soddisfare appena un terzo del reale fabbisogno.
Housing Europe, network delle federazioni europee che si occupano di edilizia popolare, cooperativa e sociale con sede a Bruxelles, ci restituisce un quadro disastroso.
Nel report “The State of Housing in the EU 2017” viene stimato che nel nostro Paese solo il 3,7% del patrimonio residenziale è adibito a edilizia sociale. Se contiamo che questa percentuale va poi divisa tra edilizia sovvenzionata, agevolata e convenzionata possiamo immaginare a quanto ammonti il numero di alloggi ERP in Italia.
Giusto per fare un confronto, in Inghilterra la percentuale è del 17,6%, mentre in Francia si aggira intorno al 16,8%. Solo la Germania con il 3,9% ci si avvicina numericamente, ma non effettivamente, poiché il Paese tedesco è caratterizzato da un mercato in cui gli affittuari superano il numero dei possessori e in cui non si professa la “religione” della casa di proprietà: esattamente il contrario di quello che avviene qui.
La stessa Corte dei Conti, nella relazione accompagnatoria alla Deliberazione 3 agosto 2020, n. 9/2020/G, riguardanti i fondi di sostegno alla locazione all’abitazione riferiti al periodo 2014 – 2020, sottolinea l’inadeguatezza delle politiche abitative attivate in Italia in confronto a quelle Europee.
Sull’argomento, torna utile ritornare alla citata relazione della Corte dei Conti, precisamente:
“A livello europeo il diritto all’abitazione ha una connotazione decisamente più forte, rientrando a pieno titolo nella sfera dei diritti fondamentali, strumentali al perseguimento di un livello di vita dignitoso, oltre che alla lotta alle diseguaglianze, alle discriminazioni ed alle esclusioni. Tale diritto si colora di particolari sfumature lì dove coniugato con la tutela di soggetti bisognosi di una particolare protezione, in quanto minori, rifugiati o richiedenti asilo. In questa direzione diversi sono stati gli approdi giurisprudenziali della Corte di Strasburgo, nonostante il diritto all’abitazione non sia espressamente menzionato nella Convenzione dei diritti dell’uomo (Cedu). Ciò è stato possibile attraverso l’estensione dell’ambito applicativo dell’art. 8 che tutela la vita privata e familiare. Quanto sopra rappresenta un punto fermo assai importante, soprattutto se lo si considera alla luce dell’apertura del diritto interno alla Carta Cedu, operata in particolare dalle cd. pronunce gemelle (n. 348 e 349/2007) della Corte Costituzionale, che hanno reputato tali disposizioni utilizzabili come norme interposte, che consentono al giudice comune di rimettere la questione davanti alla Consulta per contrasto con l’art. 117 della Cost1., ogni qual volta la norma interna risulti non in linea con le disposizioni contenute nella suddetta Carta e tale antinomia non sia risolvibile in chiave ermeneutica. 1 Il profilo di incostituzionalità delle disposizioni del diritto interno contrarie alle previsioni della Cedu si qualifica come violazione dell’art. 117, c.1 della Cost. che impone, come noto, il rispetto degli obblighi derivanti dall’ordinamento comunitario e dal diritto internazionale.Corte dei conti | Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato | Delib. n. 9/2020/G 22.
Diversamente dalla Carta Cedu, la Carta sociale europea (Cse), nel testo novellato nel 1996, prevede espressamente all’art. 31 la tutela del diritto all’abitazione e impone agli Stati firmatari una serie di adempimenti complessivamente finalizzati ad assicurare l’accesso ad un’abitazione di livello sufficiente a consentire un tenore di vita dignitoso per tutti e, nello stesso tempo, a ridurre al minimo lo status di senza tetto. Trattasi, a tutti gli effetti, di un impegno che deve essere onorato da parte degli Stati firmatari e l’avvenuto rispetto deve essere verificato da parte del Comitato europeo dei diritti sociali. Quest’ultimo svolge, a tal fine, attività di monitoraggio sulla normativa vigente in materia nei diversi Paesi, oltre che sullo stato di attuazione delle politiche pubbliche di settore ed emana pronunciamenti, sotto forma di raccomandazioni, allo scopo di assicurare, in particolare, l’applicazione di criteri non discriminatori per l’accesso all’abitazione. Il diritto all’abitazione è previsto espressamente non solo dalla Cse ma anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue (Cdfue), all’art. 343, che disciplina l’assistenza sociale ed, in particolare, l’assistenza all’abitazione, da intendersi quale insieme di interventi finalizzati a consentire la vita delle persone in un ambiente dignitoso, anche per coloro i quali non dispongano di mezzi sufficienti per accedere al mercato immobiliare. Il combinato disposto degli articoli 31 della Cse e 34 della CdfUe conduce ad una lettura del diritto all’abitazione in chiave più pregnante e chiama i giudici nazionali all’applicazione delle disposizioni europee, proprio in considerazione dei limiti della tutela prestata dall’ordinamento interno, che, nell’interpretazione costituzionalmente orientata, condiziona la “giustiziabilità” di tale diritto alle risorse presenti in bilancio, essendo lo stesso qualificabile, come detto sopra, in termini di diritto sociale finanziariamente condizionato. Anche la Corte di Giustizia si è espressa in questo senso, ritenendo che il diritto all’abitazione sia un diritto fondamentale da ricomprendere nell’ambito delle politiche di inclusione sociale, oggetto di competenza concorrente Ue – Stati membri, i quali ultimi dovrebbero fornire indicazioni anche sulla concreta garanzia del diritto all’assistenza abitativa”.
Il caso Torino.
Partendo da un dato riferito agli alloggi disponibili non occupati, presente nella proposta di revisione al P.R.G. formulata dall’Amministrazione Appendino, si rileva che: “Confrontando i dati relativi al numero di famiglie ed il numero di unità abitative si evidenzia come la differenza tra gli stessi determini un numero di unità abitative che non trova riscontro nel numero di famiglie. Tale differenza, pari a 53.862, prendendo a riferimento il 2018, potrebbe essere conteggiata come quantità di alloggi disponibili non occupati da famiglie residenti.”
Lo stesso documento evidenzia che “In base ai dati ATC raccolti, infatti, risultano presenti in città 17.761 alloggi di edilizia sociale ed economico popolare. Sul totale di abitazioni presenti in Torino solo il 2,82 % risulta essere destinato ad edilizia sociale ed economico popolare. Gli alloggi assegnati risultano a tutti gli effetti 16.844 a fronte di una richiesta di 30.519 che lascia senza risposta 13.675 domande di residenza a basso costo.
Parametrando i dati relativi al numero di famiglie totali presenti sul territorio al numero di nuclei che richiedono una casa ad ATC risulta evidente come il 6,82 % delle famiglie Torinesi necessitino di una abitazione a basso costo.” A Torino si afferma la tendenza nazionale cge da molti anni vede gli interventi di edilizia popolare marginalizzato ae a favore del cosiddetto “housing sociale”, che ha aperto le porte a nuove speculazioni, senza scalfire le cause del profondo disagio abitativo presente in Città e più in generale in Italia (v. il Piano Casa promosso dall’allora governo Berlusconi). Detta strategia è ben presente e trova spazio rilevante nello stesso documento di revisione del PRG.
Il tanto decantato mix pubblico – privato, ben presente nel PNRR di Draghi, non fa altro che rimettere nelle mani dei grandi poteri presenti, ovvero agli stessi responsabili della grave situazione emergenziale in atto nel settore, la “soluzione”.
Emergenza abitativa prima e dopo la pandemia.
La società “NOMISMA” rileva, che la crisi pandemica ha un forte impatto sulla condizione di disagio abitativo delle fasce sociali più esposte, in quanto ”Accanto alla bassa consapevolezza sociale dell’emergenza abitativa, tuttavia, emerge la fragilità, ben visibile se si considera che nel pre-Covid il ritardo sul pagamento dell’affitto era del 9%, mentre invece nel post salirà quasi al 40% e influenzerà la domanda delle famiglie.”
La conseguenza di quanto riferito da Nomisma è l’aumento esponenziale delle procedure di sfratti per morosità (90% incolpevole) e dei pignoramenti, il governo, su pressione delle organizzazioni sindacali degli inquilini, ha previsto una modulazione delle esecuzioni stabilendo due scadenze previste per il 30 giugno e 31 dicembre c.a., proroga per la quale sarà la Consulta a pronunciarsi sul blocco prolungato degli sfratti, a seguito dell’ordinanza del 24 aprile 2021 con cui il Tribunale di Trieste ha sollevato questione di legittimità costituzionale in ordine alle norme che hanno previsto e prorogato la misura.
La diminuzione dei fondi di sostegno alla locazione (a favore dei conduttori) oramai sono residuali e tardivi e ciò aggrava le condizioni di morosità in capo ai nuclei, lo stesso fondo di sostegno alle morosità incolpevoli (contributo ai proprietari per recuperare le somme arretrate, con annullamento delle procedure di sfratto e con vincolo a stipulare un nuovo contratto con affitto concordato) stenta a concretizzarsi.
Che fare?
A fronte di quanto sopra descritto, si ripropone l’antico tema del “Che fare?”, precisamente, quali proposte mettere in campo, per far fronte all’emergenza abitativa che riguarda oramai in modo trasversale tutti i gruppi sociali più esposti alla crisi e non solo quelli tradizionali.
Emerge la necessità di ampliamento dell’offerta abitativa pubblica, a basso costo e senza ulteriore consumo di suolo, il recupero del patrimonio edilizio abbandonato è una delle priorità da realizzarsi, con l’ausilio di uno strumento quale un “Osservatorio” che rilevi e realizzi il censimento dei manufatti utili allo scopo.
Tale misura, ovviamente, ha tempi non compatibili con l’esigenza di garantire una casa alle famiglie che nei prossimi mesi saranno sottoposte alle esecuzioni di sfratto, pertanto necessitano interventi urgenti e indilazionabili, utilizzando strumenti previsti dalle normative vigenti per far fronte alle emergenze sociali che per motivi diversi si manifestano in tutta la loro drammaticità.
Gli alloggi vuoti e immediatamente occupabili, di proprietà delle grandi imprese ed Enti vari sono una risorsa fondamentale per realizzare il passaggio da “casa a casa”, a tal fine, bisogna dire stop ai piani di alienazioni in atto (v. per es. le aste attivate dall’INPS), agendo con lo strumento giuridico utile al raggiungimento dell’obiettivo che è l’esproprio definitivo e/o temporaneo di detti immobili.
Detta misura emergenziale, integra e non sostituisce l’altra misura strutturale che è l’aumento dell’edilizia sociale, attraverso interventi di riqualificazione del patrimonio di edilizia popolare inutilizzato, per assenza di manutenzione straordinaria (in questa fase sono in corso alcuni limitati interventi con i bonus 110×100, ecc); senza dimenticare i fondi finalizzati ex GESCAL mai utilizzato o utilizzati in modo improprio da alcune Regioni.
Altresì, bisogna mantenere alta l’attenzione ai tentativi costanti di svuotare i centri storici attraverso operazioni di svendita del patrimonio di edilizia popolare, favorendo la grande speculazione fondiaria e marginalizzando gli occupati delle stesse.
Ovviamente, quanto su esposto non è esaustivo della problematica in argomento, in quanto, vanno approfondite questioni quali i ruoli dei soggetti gestori (ex INA CASA) unitamente alle grandi cooperative edilizie e altresì, prendendo atto dei dati pubblicati nel Rapporto Immobiliare 2020, del 20 maggio 2021, è urgente e indilazionabile una radicale riforma del mercato delle locazioni che ristabilisca un rapporto equo tra reddito e spese per l’abitare.