Manifestare è la regola, reprimere l’eccezione di Francesco Pallante e Matteo Losana
Nel commentare quanto accaduto durante le manifestazioni studentesche che hanno accompagnato la visita della Presidente del Consiglio a Torino dello scorso 3 ottobre, il Prefetto di Torino ha utilizzato espressioni che mal si conciliano con la disciplina costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero. Secondo il Prefetto: caricare gli studenti sarebbe stato «un atto dovuto»; «il diritto di manifestare deve rispondere a delle regole, martedì non c’è stata nessuna richiesta di autorizzazione da parte dei manifestanti»; «c’è stata la necessità di garantire che un evento di portata nazionale si svolgesse in un clima civile e sereno» (https://torino.repubblica.it/cronaca/2023/10/04/news/scontri_a_torino_prefetto_cafagna_intervento_dovuto-416825028/).
È indubbio che il diritto di manifestare, come tutti i diritti costituzionali, deve svolgersi nel rispetto delle regole; ma è altrettanto indubbio che la disciplina costituzionale della libertà in questione è ben diversa. La norma di riferimento è l’articolo 17 che, disciplinando la libertà di riunione, tutela anche la libertà di manifestazione (pacificamente intesa come “riunione in movimento”). Trattandosi di una libertà, l’esercizio della medesima non deve essere rimesso all’autorizzazione di nessuno, tantomeno dell’autorità di governo. Dice infatti la Costituzione: «delle riunioni in luogo pubblico [come le piazze, ndr] deve essere dato preavviso alle autorità». Qui le parole sono importanti: il preavviso non è una richiesta di autorizzazione. Dare il preavviso a qualcuno significa metterlo a conoscenza delle proprie intenzioni. Punto. Il preavviso non necessita di risposta, è un atto unilaterale. A che cosa serve allora? Serve a consentire all’autorità di valutare la situazione, verificando se dalla manifestazione deriveranno «comprovati» pericoli alla sicurezza o all’incolumità pubblica. E solamente in questi casi – ben più circoscritti rispetto al più ampio concetto di ordine pubblico – l’autorità può vietare la manifestazione, che dunque non potrà legalmente svolgersi. Insomma, il divieto di manifestare è il caso eccezionale (non certo la regola), adottabile solamente quando ricorrano quei comprovati motivi di cui abbiamo detto. E tra questi motivi non figura certamente il concomitante svolgimento di un «evento di portata nazionale» (sono ancora le parole del Prefetto).
Anzi, proprio perché era in corso un evento di portata nazionale, con le più alte cariche istituzionali riunite, massima era l’esigenza di garantire la libertà di manifestazione. Mentre il potere autoritario è terrorizzato dalle critiche, il potere democratico dovrebbe sempre affrontarle apertamente, perché è un potere che è sempre in gioco. Un potere sempre (democraticamente) contendibile. Se martedì scorso c’era, dunque, un atto dovuto (vale a dire, un dovere che gravava sulle forze dell’ordine), questo era di tutelare la libertà dei manifestanti, non certo di caricarli.
E se il preavviso non viene dato? Nemmeno in questo caso l’autorità è legittimata a ricorrere alla violenza per sciogliere la manifestazione. La mancata comunicazione del preavviso fa sorgere la responsabilità degli organizzatori, ma la manifestazione rimane pienamente legittima. Il solo caso in cui le forze dell’ordine sono autorizzate a intervenire utilizzando la forza ricorre quando la manifestazione viola il precetto costituzionale che impone di riunirsi «pacificamente e senz’armi». In questo caso, lo scioglimento può dirsi un atto dovuto. Sul presupposto che il primo atto di violenza deve venire dai manifestanti, non certo dalla polizia. In un contesto sociale sempre più difficile, nel quale le ragioni di malcontento e di dissenso sono sempre più numerose, sulle istituzioni e sulle forze dell’ordine grava un compito, senza dubbio difficile, ma importantissimo: garantire che lo scontento, anche se fastidioso, possa sempre e liberamente esprimersi nelle forme previste dalla Costituzione.
L’articolo riprende quello, più ampio, pubblicato su la Repubblica, Cronaca di Torino, del 6 ottobre