Rsa Servais: prosegue l’alleanza “malata” tra profit e no-profit? di Andrea Ciattaglia
In quest’anno e più di pandemia gli abitanti di Parella, popoloso quartiere nella periferia ovest di Torino, hanno visto dalle loro finestre crescere una contraddizione scandita dalle gru in fervente attività. Mentre le Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) affrontavano, meglio subivano con una strage di migliaia di malati, la prima e la seconda ondata del Covid, mentre si dimostrava l’assoluta impreparazione e la mancata copertura sanitaria di queste strutture (pur destinate a pazienti malatissimi e non autosufficienti e tutte accreditate con il Servizio sanitario per svolgere funzioni in nome e per conto dell’ente pubblico), mentre le porte delle Rsa rimanevano sprangate a qualsiasi contatto umano tra degenti e loro parenti (annullando qualsiasi relazione umana) di fronte alle case degli abitanti di Parella cresceva la Rsa Servais: 240 posti letto (più dell’intero ospedale Martini) nel terreno all’angolo con via Bellardi pronti a ricoverare malati non autosufficienti a tariffe di oltre 3.000 euro al mese. Metà a carico dell’Asl, per i pazienti in convenzione; tutte sulle spalle dei clienti per gli altri.
A gestire la struttura, di prossima apertura, il gruppo Gheron, tristemente noto a Torino perché gestore delle due strutture Massimo D’Azeglio e Chiabrera (240 posti totali) nelle quali tra marzo e aprile del 2020 si registrarono decine di morti per Covid, ammissioni di pazienti positivi trasferiti dagli ospedali – secondo quanto permesso dalla scellerata delibera regionale del 20 marzo – che inevitabilmente, secondo i rilievi della Procura che indaga per «epidemia colposa», finirono per contagiare gli anziani malati già degenti e per determinare numerosi decessi.
Il benestare alla realizzazione della Rsa Servais venne dato nel 2018 dall’Asl Città di Torino, via libera assunto e avallato da una determina regionale ancora sotto l’amministrazione di centro-sinistra guidata da Sergio Chiamparino. Sul fatto che l’area potesse essere destinata anche alla costruzione di una Rsa hanno inciso le politiche urbanistiche del Comune dell’ultimo ventennio. Dal 2000 in avanti Palazzo Civico ha, di fatto, prima premiato i centri commerciali e poi le Rsa, insediamenti che condividono la caratteristica di generare oneri di urbanizzazione a favore delle casse del Comune, utilizzati per chiudere i bilanci dell’Ente.
Da almeno dieci anni è chiaro ai grandi investitori immobiliari che le Rsa sono un business assolutamente redditizio, che coinvolge più attori, sia del settore privato profit, sia di quello no-profit. Il ruolo di pagatori a piè di lista, praticamente senza alcuna possibilità, e in molti casi “volontà”, di controllo sulla qualità del servizio erogato, viene riservato all’ente pubblico (tutti noi) o ai privati cittadini malati (e le loro famiglie).
Il caso della Rsa in questione è emblematico della saldatura profit/no-profit. Due settori dell’economia per nulla alternativi, ma cooperanti in un sistema in cui la tutela della salute dei cittadini – dei più malati tra tutti i malati – è messa a reddito e deve generare profitto.
Nel caso della Rsa Servais il costruttore che ha rimesso a nuovo l’edificio, una ex sede direzionale, è Carron, colosso mondiale dell’edilizia e delle infrastrutture (portafoglio lavori al 31 dicembre 2019: 913 milioni di euro), che tra pochi mesi farà partire un altro cantiere a Torino per trasformare il «Lingottino» (l’ex Fabbrica pianoforti di corso Racconigi) in due Rsa da 120 posti affiancate, sul modello Chiabrera/D’Azeglio.
Il gestore di via Servais è il già citato Gheron (profit) titolare della convenzione con l’Asl/Regione che garantisce le entrate delle quote sanitarie per i pazienti in convenzione e il permesso di costruire una Rsa su un’area destinata a generici servizi; ma – se il modello della Rsa Servais replicherà quello delle altre strutture Gheron in tutta Italia – l’effettivo svolgimento delle mansioni all’interno della struttura sarà affidato alla cooperativa sociale (Terzo settore/no profit) Med Services, cooperativa di servizi alla persona che in base alla legge esercita «un’attività d’impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale». È a lei che fanno capo le assunzioni del personale, i rapporti con i professionisti esterni a partita Iva e persino il rapporto diretto con gli utenti/clienti giacché il personale con il quale avranno a che fare i ricoverati e i parenti fa capo alla cooperativa.
A partire da questo esempio, per nulla raro nella filiera di gestione di una Rsa, si può ben constatare che il no-profit si ritaglia uno spazio al servizio del profit, costituendone la faccia presentabile e spendibile per ricavarne tutti i benefici possibili, in una filiera in cui comanda chi «sta sopra» con l’obiettivo di fare utile. Nei fatti, la gestione delle Rsa vede coagularsi gestori di grandi o grandissime (internazionali) dimensioni che operano da soli (facendo cartello) o in una sinergia profit/no profit non tanto per arrivare a commesse più grandi, ma per sfruttare, in chiave di profitto, i vantaggi delle cooperative, tra le quali ci sono le più basse garanzie e condizioni contrattuali per i dipendenti.
In questo contesto, quanto sono credibili le prese di posizione – a più riprese rilanciate da rappresentanti del Terzo settore e politici – sulla «differenza strutturale» del no-profit rispetto al privato che orienta la sua attività al profitto? Regge, alla prova dei fatti, la difesa del no-profit (e dei conseguenti aiuti economici ad esso indirizzati) motivata con una effettiva «difesa delle piccole strutture» e delle realtà senza scopo di lucro? L’esempio di Torino – e in generale del Piemonte, dove la Regione prevede di aumentare di 6mila unità i posti autorizzati in Rsa, 2.500 solo a Torino, che è facile prevedere verranno gestiti in prevalenza da grandi gruppi economici – dice che non è così e che le vittime dell’alleanza perversa tra profit e no-profit sono i malati non autosufficienti, utenti/clienti senza possibilità di alternativa.