piero baral
A Pinerolo cerco di inserirmi in esperienze di gruppo. Così con un centinaio di altri ragazzi e ragazze che frequentano il Movimento studenti cattolici, negli anni precedenti la contestazione del ’68, scopro le tematiche dell’immigrazione, del Vietnam, dell’ecumenismo, della pace ecc. Accompagno per la prima volta al parco una ragazza, una domenica pomeriggio, e dopo pochi giorni le scrivo che ‘non ho tempo per costruire una storia con lei, ‘devo studiare’. In realtà non sono pronto per quella che è un’esperienza normalissima, ma per me sovrumana; inoltre non ho l’abitudine di chiedere soldi per me in casa mentre i miei coetanei o lavorano già o hanno più possibilità di spesa.
Nel 67-68 sono ad Agraria, facoltà toccata marginalmente dalla contestazione del ’68. Non studio, conosco invece Sandro Sarti, ex partigiano e attivo nella controinformazione sul Vienam e poi sulle lotte di Palazzo Campana. Si deve a lui l’idea della grande marcia sul Vietnam a T orino del 1967 , silenziosa e senza cartelli, ‘L’università non fa per me’, dovevo spiegarlo a mio padre che nonostante i pessimi risultati all’esame di stato mi aveva consigliato di studiare ancora perché ‘i diplomati fra un po’ saranno molti e non si troverà facilmente lavoro’. Purtroppo ho sprecato due anni che avrei potuto impiegare meglio cercandomi un lavoro invece di vivere sulle spalle dei genitori. Forse dovevo provare con una facoltà letteraria, ma certo non dedico tempo adeguato a studiare né ho un metodo. Di questo periodo mi ricordo come positiva soltanto la ricerca e la stesura di un dossier sui cinema parrocchiali uscito sul mensile di Pinerolo ‘XXV ora’. Ci misi sei mesi rubati allo studio. Faceva parte di un’ampia ricerca del mensile su ‘Il potere nella chiesa locale’.
In questo periodo riesco parzialmente a uscire dai miei blocchi psicologici e a tentare approcci con una donna, ma sono bloccato da timori vari per cui non concludo nulla, trascinando il rapporto fino alla fine del servizio militare e lasciandola poi senza spiegarle i miei problemi.
Al ritorno dalla ‘naia’ devo trovare un lavoro. Del servizio militare negli Alpini, con un antimilitarismo praticato in modo individuale, ricordo di aver subito vari episodi sgradevoli di nonnismo, il tempo sprecato, ma anche la mia resistenza e soddisfazione nelle marce in montagna. I miei genitori si aspettano che metta almeno a frutto il diploma di geometra, ma sta maturando una crisi di identità molto forte che ha radici varie e non confesso che a pochi. Mio padre mi dice in quel periodo: ‘fai quel che vuoi ma fallo bene’. Io però sono traumatizzato dalle vicende speculative, nell’edilizia a Perosa, di un fratello di mio padre – quindi concludo che il geometra io non lo farò mai; un secondo aspetto è la mia impreparazione e il timore di trovare ‘lungo’ in una esperienza di lavoro di tipo impiegatizio – ho sprecato gli ultimi due anni delle superiori e due ad Agraria . Più tardi capirò anche che se non sei preparato non hai resistenza politica, puoi cedere ai ricatti sul lavoro da parte della direzione. La verifica avviene alla Maiera di Pinasca, dove resisto un anno, senza impegnarmi a studiare per reggere un primo lavoro di contabilità.
Abbandono dopo un anno questo impiego, d’ora in poi non cercherò un’occupazione per cui mi venga richiesto il diploma. La mia scelta in famiglia viene vista con dolore da parte di mia madre e contrastata da parte di mio padre, con cui per tutta la vita mi confiderò pochissimo . ( Da allora saranno trent’anni di esperienze varie come operaio in molti settori. Vado in pensione nel 2002 come operaio di 5° livello -appena un livello sopra l’operaio comune della Luzenac – e ho oggi una pensione di 893 euro). Col primo lavoro e i primi soldi guadagnati prendo la patente di guida, ma è mio padre a insistere ¸ per me andava bene anche l’autobus e lo sgrido perché ha comprato una 500 nuova per me. La tratterò sempre male,
guidandola per anni in modo spericolato. Con l’auto e il lavoro riesco ad avere una prima reale autonomia. In montagna, la prima notte passata con amici ed amiche, eccomi iniziare una vita sessuale con una compagna, è il Capodanno del 1971. Però porto in questa storia frustrazioni e durezze dovute alla mia immaturità, sensi di colpa dovuti alla mia educazione cattolica, irrequietezze e infine nuove fantasie. Questo rapporto finirà quando comincio a frequentare, intorno al ’73, un’altra donna. ‘Mordi e fuggi’ potrebbe essere la sintesi di questa fase.Come diranno poi le femministe di tanti uomini, non riesco ad essere altro per lungo tempo che un ‘fascista’ con la donna, proprio mentre sperimento invece la prima vera formazione politica di sinistra partecipando al Circolo Operaio di None.
Con l’assunzione all’Indesit nel 1972, mi ritrovo presto come operaio ad una linea di macchine utensili, e dimostro alla direzione e ai compagni di essere un operaio poco affidabile. Niente a che vedere con la tradizione dell’operaio comunista professionalizzato che si riconosce nel lavoro e cerca di farlo bene per poter dire la sua nel sindacato e nel partito. Accumulo provvedimenti disciplinari e infrazioni sulle bollature, la mutua, la produzione… L’impegno che non metto nel rispettare le ‘regole’ sul lavoro lo metto invece nella politica, quegli anni sono densi di attività negli orari più strani, strappando tempo al sonno, cosicché reggo sempre meno i turni in fabbrica. Vivo di corsa, in un attivismo che oltre a farmi perdere poi il lavoro comincerà a logorarmi i nervi. Imparo al circolo operaio di None, specialmente da un compagno uscito dal PCI nei primi anni Sessanta, a leggere e commentare la fabbrica e la realtà più vasta alla luce dei testi originali dello ‘zio Karl’ o di ‘Carletto’ come veniva soprannominato l’autore de Il Manifesto dei comunisti .
Non studierò mai con metodo quello ed altri testi sacri della sinistra. Letti e riletti ma non assimilati. Incomincio ad imparare regole di comportamento originali nella lotta di fabbrica, nella scrittura dei giornalini settimanali venduti ai lavoratori, nei confronti dei gruppi extraparlamentari di allora e del PCI. Si possono riassumere come segue: – no all’idea che la classe operaia sia omogenea e pronta magari all’appello alla rivoluzione da parte del ‘partito’ di turno, no alla delega ai dirigenti a pensare e parlare a nome degli ‘iscritti’ o della base elettorale, no alla battaglia per la propria ‘maglietta’ sindacale a spese della possibile unità dei lavoratori, no al ‘tifo’ per la lotta armata e per i Robin Hood che dicono che è arrivato il momento della rivoluzione e iniziano a sparare sempre più in alto a nome della classe operaia; no alla divisione tra chi studia e chi lavora, necessità di convincere i lavoratori a unire alla disponibilità alla lotta l’impegno a farsi una cultura ( però sarò l’unico del Circolo che non si sforzerà di riprendere a studiare, preferendo dedicarmi invece a una trentennale variopinta attività di informazione politica o sindacale di base, impegno per me alla lunga più faticoso ma anche ‘divertente’.) .
Imparo che chi vuole la lotta più dura può rivelarsi un crumiro, come pure che gridare al ‘contratto bidone’ o al ‘sindacato venduto’ non vuol dire essere automaticamente disponibili a organizzarsi e lottare in prima persona; inoltre che non si deve accettare ‘la nomina a delegato a vita ( i senatori…), ma saper creare ricambi e saper alimentare il dibattito e la partecipazione senza farsi delegare, e staccare dalla produzione. – Imparo che la contraddizione tra borghese e proletario passa all’interno della classe operaia e di ogni individuo, ma una cosa è dirlo e una cosa è iniziare la propria rivoluzione personale. – (Per restare alla riflessione sulle mie contraddizioni personali, non avrò grandi miglioramenti nel rapporto con la donna; al primo matrimonio, nel primo anno della Fiat , arrivo impreparato e controvoglia. Ma ho bisogno di uno status e pagherò la scorciatoia, ‘infatti finisce male. Dovrò aspettare di avere 40 anni per avere finalmente una storia solida e duratura che continua ancora oggi. Per anni però sono sordo ai richiami e dedico un tempo insufficiente alla condivisione degli impegni famigliari, e solo con la pensione comincio a equilibrarmi. E mi accorgo con stupore che in realtà non era così difficile questo passo, bastava avere delle priorità diverse per evitare sofferenze e discussioni).
Non migliora molto il mio rapporto col lavoro, con la tecnica. Resterò così per buona parte della vita scisso tra teoria e prassi, e questo contribuirà allo scoppio dell’esaurimento seguito al licenziamento dalla Fiat. Più complesso è spiegare il mio disinteresse verso il lavoro sindacale tradizionale , ritenuto da me noioso o burocratico. Anch’io in fondo delegavo a chi ‘sapeva’, e non ho fatto passi avanti con l’ingresso in Alpcub
nel 1995. (Grandi spazi di democrazia non c’erano nemmeno negli anni ’70 all’interno dei sindacati a meno che non fossero imposti da lotte vivaci. In CGIL sono stato per vent’anni. Uscii nel 1994 e prima di Alp proponevo un’associazione di inchiesta, confronto e sostegno alle parti più vivaci presenti fra i lavoratori, senza preoccupazione per le differenze di ‘maglietta’ sindacale. In attesa di tempi migliori di forti lotte e magari di un sindacato a venire, ‘di classe’. Invece i più scelsero di fondare un sindacato territoriale di base e mi accodai. ) Un simile disinteresse e una simile ‘delega a chi ha voglia’ ho provato verso l’impegno nelle amministrazioni comunali. La mia esperienza nei partiti è stata in totale di 3 anni In Fiat ci arrivo dopo una esperienza come manovale edile. Fuori della disciplina del lavoro politico di gruppo sperimentato all’Indesit di None, rifluisco su posizioni meno coerenti, isolato orami da anni dopo il licenziamento dall’Indesit . Intanto ha cominciata a gelarmi i nervi e a limitarmi lo spazio l’attività della lotta armata. Non è sufficiente a darmi sostegno il rapporto rarefatto e scomodo per la distanza territoriale con il Coordinamento di Borgo S.Paolo a Torino e il confronto limitato con reduci dal Circolo di None.
La Fiat è un gigante malato che contesto in modo disordinato e senza prospettive. Non faccio il tifo per le BR o Prima Linea, ma so che fanno presa su molti. Mi tengo fuori dei giri sospetti, ma la fabbrica in quegli anni è un brulichio di teorie politiche e di comportamenti che la direzione Fiat tiene d’occhio a distanza e su cui infine interviene a ottobre del 1979. Il PCI aveva da tempo promosso il questionario sul terrorismo. In tre a Rivalta avevamo firmato un testo contro il questionario che invitava a interrogare invece i lavoratori sui delegati sindacali imboscati, sullo scollamento tra sindacati e lavoratori. Questo testo, e la ‘freddezza’ dei bollettini interni delle Presse che curo, mi guadagna il posto fra i 61 ( oltre alla autoriduzione in produzione).
La mia reazione al licenziamento dopo tre anni di Fiat è breve e limitata. Conosco cadute nello sconforto, fino all’angoscia dopo il licenziamento della Fiat del 1979. Sono in sostanza l’anello debole dei 61 in genere organizzati in vari gruppi. Firmo da solo un ultimo volantino – ‘la Fiat mente’- , in cui scrivo al plurale ma con molte posizioni personali; poi tutto mi scoppia nella testa e nei nervi. Avevo pensato per tempo a una repressione in arrivo, proponevo un comitato di difesa, ma sottovalutavo il mio isolamento politico alle presse. In quei tre anni passati a Rivalta non mi riconosco in nessuna delle organizzazioni politiche presenti in fabbrica – e fra i 61. Ero un iscritto alla CGIL che non frequentava le sedi sindacali ma parlava solo nelle assemblee e criticamente. Dicevo che ero un apprendista-comunista. Lo affermo ancora oggi, anche se con più modestia di allora e continuo a pensare che lo zio Karl, ha dato strumenti seri al movimento operaio di tutto il mondo , nonostante fosse un borghese, ‘ebreo’, e poco fedele alla moglie, ( e studiasse il Capitale vivendo con i soldi dell’amico industriale).. Il comunismo è più che mai attuale e già presente in molti aspetti del capitalismo mondiale sempre più in crisi. La lotta di classe non si è estinta. Non sto a dilungarmi su questo (…)
Mi è stato detto verso i cinquant’anni: ‘Non ti sai perdonare’, come commento alla mia abitudine in famiglia e con altri, di ripensare e ammettere errori, furbizie, scorciatoie illusorie dovute alla mia debolezza, Questa abitudine a rimeditare in pubblico è però recente e iniziata con la fase finale dell’esaurimento. In fondo il mio cammino nella vita non è stato né lineare, né coerente come qualcuno superficialmente scrive. L’esaurimento seguito al licenziamento ha favorito una rottura importante nella mia vita. Dopo una crisi profondissima, ne sono uscito con fatica e con calma, digerendo le molte elaborazioni irrazionali e di destra provocate dalla malattia. I pazzi dicono la verità- mi disse un giorno Vittorio Morero, cui leggevo per telefono poesie satirico-allucinate .
Durante la malattia ho fatto i conti con la morte, che temo come sofferenza ma accetto come esito naturale della vita umana. Ho lasciato disposizioni di funerale laico privato, e di cremazione. Non mi aspetto niente di speciale dopo la morte, ma rispetto chi crede senza integralismo.